Jacopo De Michelis è un veterano della parola. Traduttore, curatore, consulente editoriale, da una vita lavora in Marsilio come responsabile della narrativa. Milanese di nascita, veneziano di adozione, è anche appassionato di fotografia e pubblica i suoi scatti su instagram come @geidiemme.
La stazione, romanzo fiume di quasi mille pagine, è un tributo alla stazione centrale di Milano costato otto anni di lavoro e un certo coraggio nel dedicarsi a qualcosa che, per mole e varietà dei temi trattati, va sicuramente contro le convenzioni della editoria italiana.
La spinta decisiva a imbarcarsi in una avventura tanto impegnativa, Jacopo l’ha ricevuta, a sua detta, dal successo per certi versi inaspettato di un romanzo altrettanto corposo come Uomini che odiano le donne, il primo della trilogia Millennium di Stieg Larsson, pubblicato proprio da Marsilio.
Riservato, gentile ed elegante, Jacopo, che da sempre è impegnato nella azienda di famiglia, ha preferito pubblicare La stazione per i tipi di Giunti per una questione di eleganza, un attenzione di altri tempi, più raffinati di quelli che stiamo vivendo.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo a TESTO, la fiera dell’editoria che si è tenuta a Firenze nell’ultimo weekend di febbraio in occasione della quale ha presentato la sua opera d’esordio, la cui recensione potete leggere QUI.
Jacopo ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
La stazione è un libro complesso, non soltanto per la mole quanto per la quantità di tematiche che racchiude. Un lavoro ricco di dettagli e di particolari storici e sociali. Soprattutto un atto d’amore verso l’avventura ottocentesca compiuto da chi, per carriera ed esperienza, avrebbe potuto scegliere di cimentarsi in qualsiasi altro genere.
Qual è stato otto anni fa l’input che ha dato origine a quest’opera, che indubbiamente rappresenta una sfida per ogni lettore?
Ciò che volevo provare a fare era scrivere una storia che assomigliasse a quelle che, da ragazzino, mi appassionavano a tal punto da tenermi sveglio fino a notte fonda di nascosto dai miei genitori, catapultandomi in mondi fantastici e straordinarie avventure.
Per questo, mi sono ispirato da una parte alla grande tradizione del feuilleton ottocentesco (Verne, Salgari, Dumas, Stevenson ecc.) e dall’altra all’odierna serialità televisiva (che sotto molti aspetti è il feuilleton dei nostri giorni).
Mi ha fatto un immenso piacere che numerosi lettori mi abbiano scritto dicendomi che l’effetto che il romanzo gli ha fatto è stato proprio quello.
Parlando di sfida, uscire dai generi codificati che rappresentano una certezza per gli editori è un bel rischio. Qualcuno definisce il tuo romanzo un giallo, altri un thriller, altri ancora ne lodano la componente fantastica.
Secondo te ha ancora senso ingabbiare la letteratura in un genere definito e rassicurante o il pubblico italiano è finalmente maturo abbastanza da affrontare generi diversi all’interno della stessa narrazione?
Io sono partito dal thriller con l’ambizione di approdare a qualcos’altro.
Abbattendo gli steccati che per convenzione ne demarcano i confini, ho lasciato che all’interno della mia narrazione confluissero tutti i generi della letteratura popolare e d’intrattenimento, dal gotico-fantastico, all’avventura, al sentimentale. Un po’ com’era ai tempi del fuilleton, quando i vari generi, che non si erano ancora codificati e diversificati, convivevano mescolati insieme, e come accade oggi nelle serie tv, che non disdegnano la commistione e contaminazione tra i generi.
Il risultato è stato apprezzato dalla critica e da molti lettori, ma inevitabilmente ne ha anche lasciati alcuni, più tradizionalisti, spiazzati e perplessi.
Innovare, sperimentare, esplorare nuove strade è rischioso, è vero, ma fa parte dell’essenza stessa dello scrivere. Se si smettesse di farlo, la letteratura avvizzirebbe come una pianta lasciata senz’acqua.
Ex teppistello, ex pugile, ex musicista punk, insofferente a gerarchie e regolamenti e con un’innata propensione a ficcarsi nei guai. C’è qualcosa di Jacopo De Michelis nel burrascoso Riccardo Mezzanotte?
In certa misura credo che finiamo sempre per mettere qualcosa di noi stessi nei personaggi di cui scriviamo.
Detto questo, Riccardo Mezzanotte è il meno autobiografico dei personaggi. Mi è cresciuto dentro a partire dal rapporto conflittuale col padre, che avevo deciso fin dall’inizio sarebbe stato centrale nella sua caratterizzazione, sviluppando una personalità e delle inclinazioni molto lontane dalle mie, e che mi hanno richiesto parecchio studio per poterle rendere sulla pagina in modo credibile.
Esoterismo, storia, archeologia urbana. Materie che ti seducevano già prima di iniziare a scrivere La stazione o che è stato il romanzo a costringerti ad affrontare?
In parte mi incuriosivano già da prima, in parte mi ci sono avvicinato per necessità narrative. L’approfondita documentazione su varie materie e argomenti ha rappresentato una parte cospicua del lavoro necessario per scrivere il romanzo e, insieme alla complessità della trama, ha determinato i tempi lunghi della sua stesura, che ha richiesto diversi anni.
Giorgio Scerbanenco definì la Stazione Centrale di Milano “un pianeta a sé, come una riserva di pellerossa nel mezzo della città”. Tu sei riuscito a restituirla ai suoi richiami gotici, facendone un luogo magnifico e sinistro, pulsante di un’anima propria e dominante sul crocevia di umanità che la attraversa. Quanta ricerca ha richiesto il tuo libro, e dov’è il confine tra la finzione e la realtà?
Nel mio romanzo, la stazione Centrale, all’ombra della quale sono cresciuto e che mi ha sempre affascinato, è ben più di un semplice sfondo delle vicende narrate.
Può esserne considerata a pieno titolo uno dei personaggi, forse addirittura la vera protagonista. In un certo senso, si può dire che sia stata la stazione stessa a dettarmi una storia che non avrebbe potuto svolgersi in nessun altro luogo. I due principali nuclei narrativi attorno ai quali si articola la trama mi sono infatti stati suggeriti da un episodio storico e da una leggenda metropolitana relativi alla Centrale.
L’ho ricostruita con minuziosa precisione sotto ogni punto di vista (storico, sociale, architettonico), per poi inserirla all’interno di una cornice romanzesca che ne ha fatto una via di mezzo tra una casa infestata nella quale aleggiano i fantasmi del passato e una sorta di “isola misteriosa” – quella di Verne, ma anche quella di “Lost” – dove avvengono fenomeni inspiegabili che i protagonisti si affannano a tentare di decifrare.
C’è un punto preciso, nel libro, in cui si abbandona la stazione reale per addentrarsi in quella “fantastica”.
Non dico quale per evitare spoiler, ma penso che i lettori non avranno troppa difficoltà a identificarlo
Se dovessi indicare tre parole che ti rappresentano, quali sarebbero?
Non so se mi rappresentino, ma tre parole che per me costituiscono altrettante stelle polari sono: dubbio, onestà, perseveranza.
Se dovessi scegliere tre cose di cui non potresti mai fare a meno, ovviamente escludendo la scrittura, quali sarebbero?
Se, oltre alla scrittura, andassero escluse anche quelle cose basilari di cui davvero non è possibile fare a meno (salute, lavoro, affetti) risponderei: gli spaghetti, i libri, la fotografia.
Prima di salutarci e anzi, proprio per inaugurare un saluto di eccezione, che messaggio o augurio ti piacerebbe lasciare ai nostri lettori?
In primis, ovviamente, che quanto prima in Ucraina e su tutti noi tornino a spirare venti di pace.
E poi di non perdere mai, nonostante a volte risulti difficile conciliarla coi ritmi della nostra epoca, la meravigliosa abitudine della lettura, che ci permette di vivere innumerevoli altre vite oltre quella che ci è toccata in sorte.
ThrillerLife ringrazia Jacopo de Michelis
a cura di Alessandra Panzini , Valentina Dellapiazza e Ilaria Bernini