Nel maggio del 1944, la ricca contessa Maria Gherardini Franchi viene violentata e assassinata. Le autorità della Repubblica di Salò, invece di indagare seriamente, insabbiano la vicenda, che viene dimenticata negli ultimi terribili mesi della guerra. Subito dopo la fine del conflitto, il caso torna sulla scrivania del sostituto procuratore Aldo Marano. Ma l’indagine appare subito irta di insidie, tra omertà, reticenza e, soprattutto, paura: tutti, dai carabinieri ai domestici della contessa, sembrano collegare l’omicidio a oscure e demoniache apparizioni. Col passare dei mesi, la ricerca del colpevole si arena, mentre Marano deve concentrarsi sulla caccia alla spietata banda della 1100. Ma le due vicende finiscono per incrociarsi, e il magistrato sarà costretto a mettere in gioco tutto ciò in cui crede, per arrivare a scoprire la verità e fare finalmente giustizia.
RECENSIONE
Non si può vedere in tutto il suo splendore . Non bisogna attirare i falchi notturni alleati su questa bellezza architettonica nelle campagne del Ferrarese. Dentro Villa Franchi però c’è vita.
Mi è piaciuto Carlini, già dall’introduzione del “fattaccio criminale”.
La brutalità verso la vittima, la Contessa Franchi; rapinata, uccisa e violata nella sua dignità di donna, impiegata dall’autore a imitazione della bestialità del Duce, che ha violato una nazione intera.
La sua cinica descrizione della società ferrarese (e italiana, più in generale) che, negli anni in cui si sviluppa il romanzo (tra il maggio del 1944 ed il novembre del 1946), si ribalta.
Non c’è più differenza tra militari e banditi: una volta diventati bestie, tutti violentano e ammazzano. La distinzione stessa tra fascista e partigiano, diventa in quel tempo fuggevole, perché, come afferma Carlini, “il mondo del malaffare non conosce ideologie, anzi, le abbraccia tutte”.
Ma l’omicidio della Contessa è solo l’inizio di qualcosa, o la continuazione di un disegno criminale, che il sostituto procuratore Aldo Marano è chiamato a capire.
Da lettrice, sono entrata presto in empatia con Marano, perché coinvolta da subito in quella affollatissima “stazione” che affastella la sua mente. Di sostituto procuratore, di marito, di uomo, che “corre verso la catastrofe, una catastrofe scaturita da sé, dalla sua possente tendenza all’autodistruzione”.
Ho provato stima per il sostituto procuratore, per il Marano che deve affrontare il dolore degli altri e cercare di dargli un senso, con un pugno di leggi in mano e la sua illusione svanita. La medaglia d’argento del padre, che gli protegge l’anima. La sua vecchia pistola Webley, invece, il corpo. In mezzo a quella gente, che prima si faceva la guerra, e poi ha trovato nel male una bandiera comune (la propria bandiera, quella da sventolare per se stessi e per il proprio tornaconto). Marano diventa quasi uno sceriffo solitario, ma senza distintivo.
Ho guardato con affetto il Marano marito, un uomo sposato, devoto a moglie e figlio. Un uomo comune, però, con tanti dubbi, e i dubbi, in un rapporto, sono come crepe, prima sottili, quasi invisibili, ma vulnerabili al logorio del tempo e al reiterarsi dei difetti dell’altro. Eppure Aldo e la moglie Celeste ce la fanno, sempre, tenendosi stretti per i polsi.
E, infine, ho provato affinità con il Marano che legge Dostoevskij e Tolstoj, per cercare nella finzione letteraria tutte quelle risposte che la realtà non può dargli.
La sua realtà è un Paese tutto “messy place”: un’Italia infame, di voltagabbana, spie e delatori, in cui tutti sono pronti a tutto, pur di guadagnare un qualche margine di lucro sugli altri, perché “il potere va a braccetto con tutti, se serve anche con gli ex nemici”.
Una menzione particolare merita l’ambientazione (accuratissima, d’altronde l’autore è ferrarese).
Una Ferrara immersa nel suo vapore bianco, dove il sole non vince mai la guerra con la nebbia cruda e dolorosa: imbianca, illumina, ma non vince.
Una città, che come l’Italia intera, tenta di dimenticare la guerra, di lasciarsi alle spalle agguati violenti, sommarie esecuzioni, dubbie liste di proscrizione. Dove però “c’è chi ha ancora un’insaziabile fame di vendetta, quella fame di chi non mangia, ma divora”.
Un giallo storico a tutti gli effetti, ben costruito e documentato.
Un romanzo di “testimonianza” quello di Carlini, ma anche una storia dolente, di passioni, vendette e sentimenti forti.
Una narrazione che ha tutte le carte in regola per sorprendere, per ribaltare ogni convinzione, per far riflettere sugli anni (sventurati ed oscuri) dell’Italia nell’immediato dopoguerra.
Editore: Newton Compton
Pagine: 352
Anno pubblicazione: 2022
AUTORE
Alessandro Carlini (ferrarese, classe 1976), giornalista e scrittore, lavora per l’agenzia ANSA e collabora con il settimanale svizzero “Il Caffè”, oltre che con la rivista letteraria “Passaporto Nansen”.
Si è occupato soprattutto di politica estera, cultura, spettacoli ed economia in diversi Paesi, fra cui Gran Bretagna, Irlanda, Stati Uniti, Francia e Israele.
Ha esordito col romanzo di ambientazione storica Partigiano in camicia nera (Chiarelettere, 2017), vincitore del Premio Città di Como Opera Prima e del Premio Carver.
Successivamente, ha pubblicato i due gialli storici aventi come protagonista il sostituto procuratore Aldo Marano, Gli sciacalli e Il nome del male, entrambi per Newton Compton.