Intervista a Simone Filippini
Spazio a cura di: Claudia Pieri e Samuela Moro
Intervista di: Barbara Terenghi Zoia
Lo scrittore Simone Filippini è il graditissimo ospite di oggi del nostro spazio dedicato alle interviste.
Simone Filippini, classe 1991, è sceneggiatore pubblicitario, insegnante di chitarra e ama definirsi Potteriano sfegatato, amante dei Beatles, della musica funk e del cinema horror. Racconta di essere cresciuto a pane (integrale) e Stephen King. Su Tiktok parla di scrittura e letteratura, con lo pseudonimo @ilgrammaticoantipatico
Il suo primo romanzo thriller, La fabbrica del diavolo, Sonzogno 2024, è stato letto e recensito per Thriller Life da Barbara Terenghi Zoia Qui
Simone Filippini ha gentilmente accettato di rispondere alle nostre domande.
Thrillerlife: Parliamo del protagonista, Kevin, di cui hai posto in rilievo che la causa di esclusione da parte dei coetanei è legata al suo accento canadese. Hai quindi preferito non utilizzare un facile stereotipo legato al colore della sua pelle, in quanto “mulatto”. Come funzionano, a tuo parere, i meccanismi di esclusione nel gruppo dei pari? I giovani sono più razzisti o più spietati? Come è nata la scelta di questo personaggio, quale voce narrante??
Simone Filippini: La genesi del personaggio di Kevin è indissolubilmente legata a una necessità narrativa: raccontare la vita di provincia dal punto di vista di un outsider; qualcuno in grado di scorgere tutte le sfumature, i pregi e i difetti, il fascino, ma anche le ipocrisie di una società in cambiamento, come era quella italiana nei primi 2000. Ricordo bene quel periodo, perché avevo la stessa età dei protagonisti del romanzo: 20 anni fa, avere una ragazza o un ragazzo stranieri in classe rappresentava qualcosa di insolito, di fuori dal comune… almeno, nella mia realtà. E per alcuni miei compagni – non per tutti, sia chiaro – questa “anomalia statistica” innescava la paura del diverso, che si traduceva in diffidenza e battute infelici.
Alcuni ragazzi non erano ancora in grado di andare oltre le apparenze, plagiati forse da genitori, parenti e adulti che vedevano nell’integrazione qualcosa di troppo difficile da accettare. I luoghi comuni e gli stereotipi dilagavano, anche se spesso i commenti maliziosi erano dettati più dall’ignoranza che dalla cattiveria.
Ma fortunatamente abbiamo fatto grandi passi avanti da allora, anche se sono convinto che ci sia ancora molta strada da fare. Per questo ho voluto raccontare uno spaccato della mia vita che potesse sensibilizzare ancora lettori e lettrici su questo tema fondamentale e più che mai attuale.
TL: Nel libro Kevin fa riferimento a omicidi realmente avvenuti nel dicembre del 2004. Ti sei ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti? Secondo la tua opinione è più semplice scrivere un romanzo totalmente inventato, oppure costruirlo attorno a fatti realmente accaduti?
SF: Gli omicidi citati da Kevin esistono solo nella mia testa… per fortuna! Ma il mago Bauer, ad esempio, è esistito davvero. Andatelo a cercare su Google, però vi avverto: non è una storia per deboli di cuore! Credo che avere qualche ancora “reale” sia un ottimo innesco per mettere in moto l’ispirazione. Non deve essere per forza un fatto.
A volte basta un luogo, un personaggio, un’emozione, qualcosa da usare come base di partenza.
Per questo ho voluto ambientare il romanzo a Marostica nel 2004, perché posso attingere dalla memoria. E non c’è nulla di più stimolante di riversare sulle pagine le immagini e i ricordi più preziosi che hai. Per me è un processo quasi catartico.
TL: Sei famoso su Tik tok dove posti video. Come si è sviluppata la transizione che ti ha portato a scrivere un romanzo, e come mai tra i vari possibili generi hai scelto il thriller?
Simone Filippini: In realtà non c’è stata alcuna transizione. La scrittura è stata sempre una delle mie più grandi passioni. Mi sono approcciato ai social poco più di un anno fa, un po’ per curiosità, un po’ per combattere i miei demoni. Sono una persona piuttosto insicura, soprattutto del mio aspetto fisico; perciò, pensavo che espormi sui social avrebbe potuto essere una buona “terapia d’urto”. Inoltre, quando ho aperto il mio canale Tiktok, il romanzo era già concluso.
TL: Per quanto riguarda le ambientazioni, dal tuo libro sembra emergere una contraddizione, che forse rappresenta l’esperienza vissuta da molti giovani. Pur vivendo in cittadine ricche di storia, i ragazzi faticano a valorizzare quanto hanno attorno a sé, e percepiscono maggiormente l’assenza di un’offerta di altro tipo, ad esempio di un’offerta cinematografica diversificata. È così? E anche Marostica è caratterizzata in tal senso?
SF: Domanda affascinante, su cui mi sono spesso interrogato. Ho sempre pensato che l’abitudine alla lunga uccida il fascino di molte cose. Una prolungata esposizione a qualunque stimolo finisce per smorzare lo stimolo stesso. Ho speso la maggior parte della vita a Marostica. Ne conosco ogni via, ogni scorcio, ogni viso, ogni profumo… e devo dire che, invecchiando, inizio ad apprezzarla sempre di più.
Ma quando sei un ragazzino, cresciuto a serie tv e film americani, subisci il fascino delle grandi città americane, quelle dove i cinema sono tutti multisala, dove puoi ordinare una pizza in piena notte e dove la gente non dorme mai.
Da adolescente ripudi la tranquillità in favore della dinamicità e di stimoli forti, di cui spesso la provincia è priva. O meglio, gli stimoli ci sono, eccome, ma sono difficili da trovare per un teenager.
TL: Quando Nabil viene arrestato, i ragazzi protagonisti chiedono aiuto agli adulti perché sono convinti della sua innocenza. Secondo te perché gli adulti tendono a sottovalutare l’opinione di un giovane, anche se spesso i ragazzi hanno una visione più libera da pregiudizi?
SF: Il tema dell’incomunicabilità intergenerazionale è un punto chiave del libro. Credo che faccia parte del “lavoro” dei genitori sottovalutare i propri figli, come credo che sia compito dei figli dare contro ai genitori ogni volta che sia possibile. È una fase, una fase preziosa se vogliamo. Ti insegna ad essere più indipendente, a imparare dai tuoi errori. Ti spinge a fare cose avventate e stupide, costringendoti a testare i tuoi limiti e a sviluppare il pensiero critico.
Ora che sono adulto e che mi trovo dall’altra parte della barricata, ho fatto luce su molte cose che da ragazzino non capivo: superata una certa età sei sommerso dalle responsabilità e dagli impegni, così quando ti confronti con qualcuno che ha la metà dei tuoi anni, non puoi fare altro che sottovalutare tutto quello che dice.
Perché quelli non sono “problemi veri”, perché c’è la rata del mutuo a cui pensare o quella riunione di lavoro importante. È come se ti scordassi d’un tratto cosa significa essere giovane.
Io mi sforzo ancora di empatizzare con le nuove generazioni, perché non voglio dimenticare l’intensità con cui le emozioni ti travolgevano da ragazzino. Credo sia qualcosa che ogni adulto dovrebbe sforzarsi di fare. Ti aiuta a rimanere sempre connesso e a non perdere di vista i tuoi sogni. Ma forse ho una visione troppo romantica…
TL: Prendiamo in considerazione l’epilogo del tuo romanzo, in cui Kevin appare un individuo cresciuto di età, ma nel quale permane l’animo dell’adolescente: un cosiddetto adulto “Peter Pan”. A chi ti sei ispirato per il suo personaggio? Concordi con l’idea che talvolta gli uomini crescono, conservando le illusioni da adolescente?
SF: He he, qui la risposta è facile: sono io il colpevole, Vostro Onore. Sono io il Peter Pan che, anche di fronte ai primi capelli bianchi, non ne vuole sapere di crescere. Credo sia una cosa che caratterizza soprattutto noi Millennial: siamo una generazione di nostalgici, non si può negare. Ma devo dire che a me questa nostalgia non dispiace: mi fa sentire al sicuro, come quando ero bambino. Mi permette di emozionarmi per le piccole cose.
E sono convinto che per una persona – e per uno scrittore – sia importante riuscire a cogliere la poeticità di ogni attimo, anche il più futile. Perciò, viva gli eterni Peter Pan… magari, senza esagerare!
TL: Prima di salutarci quale messaggio o augurio desideri lasciare ai nostri lettori?
Simone Filippini: Continuate a emozionarvi quando leggete. E non dimenticate di trasmettere queste emozioni agli altri.
Le persone hanno ancora bisogno di stupirsi, e di stupire.
Grazie davvero per questa bella intervista.
Thriller Life ringrazia Simone Filippini
a cura di Barbara, Rosaria e Claudia